Notizie Radicali
  il giornale telematico di Radicali Italiani
  lunedì 29 agosto 2005
 Direttore: Gualtiero Vecellio
Rispettare la Resistenza*

di Adriano Sofri

Sull’edizione del 25 aprile 2009 di “Repubblica” è stato pubblicato un articolo di Adriano Sofri, dove si parla anche delle recenti iniziative radicali; un articolo che riteniamo utile riproporre tra i commenti e le analisi. 

Chi gridò con tutto il fiato dei suoi giovani polmoni «La Resistenza è rossa! Non è democristiana!» oggi sorride di se stesso e della Storia (scriviamolo maiuscolo, è permalosa).
Sorride ascoltando la canzonetta affabile e invitante: «Prego, la Resistenza non è rossa! Può essere anche berlusconiana». Partita chiusa, dunque. Anche per gli ex-neo-fascisti, che
possono decidere, chi per vera comprensione, chi perché noblesse oblige, di unirsi alla festa per così dire dall’alto e in vettura ministeriale. Partita chiusa. Ma allora perché questa inquietudine?


Il 25 aprile è la più bella data del nostro calendario civile, e proprio per questo ogni volta viene
da dire che "quest’anno" il 25 aprile ha un significato speciale. Dunque, quest’anno il 25 aprile ha un sapore speciale. Il fatto è che ci si ricorda insieme di una conclusione e di un inizio. La Liberazione fu la fine di una guerra spaventosa e la promessa di un ricominciamento del mondo. Ma anche perché nella bella entrata gioiosa nelle città liberate si riscattava il momento in cui tanti ragazzi si erano trovati di fronte alla decisione di impegnarsi per qualcosa di più
grande della loro vita. La paura e la nostalgia di quel momento hanno accompagnato a lungo la storia della Repubblica, e hanno spinto anche a errori gravi, come nella parabola di nobiltà e miseria dell’antifascismo militante.


Oggi quella spina di nostalgia e paura si fa sentire più pungente. C’è una mutazione della nostra democrazia, e bisogna trovarle un nome. La via più facile è quella di dare alla cosa nuova nomi vecchi: regime, fascismo, sono lì per questo. Vecchi nomi, vecchi simboli. I radicali, che pure sanno di avere a che fare con qualcosa di inedito, esibiscono nella loro
solitaria campagna una stella gialla. Non evocano la Shoah, ma il futuro ancora in gran parte impregiudicato - che la stella gialla annunciava negli anni ‘30 della Germania hitleriana. Hanno scelto il parallelo con un periodo in cui il cielo si gonfiava prima della tempesta, e il simbolo più
"scandaloso" e allarmante fra tutti. Non è nemmeno alla disinvoltura berlusconista sulla legalità, e al suo grembo inesplorato, che si oppongono, ma a un’intera storia di legalità
mancata dell’Italia repubblicana.

Pannella è arrivato a questo perché pensa che le sue aspirazioni, come al tempo del divorzio e dell’aborto, e ancora del finanziamento dei partiti o della responsabilità civile dei magistrati,
coincidano con quelle della maggioranza del popolo italiano, e che questo sentire comune sia tradito dall’ostracismo riservato ai radicali. Credo che sbagli, perché "gli italiani" pensano cose diverse e volubili, e soprattutto perché non votano per quelle cose (il testamento biologico,
la stessa eutanasia, cui riservano nei sondaggi un netto favore) ma magari "nonostante" quelle cose. Votano Berlusconi, proprio lui-magari nonostante quello che dice. Non voterebbero
Pannella molto di più, non abbastanza comunque, anche se andasse una sera sì e una no, Dio non voglia, a Porta a porta.

 
Il mago incarica, l’illusionista di richiamo, è Berlusconi, il cui numero è largamente indipendente dal contenuto. Berlusconi a questo punto potrebbe farsi scrivere il discorso pressoché da chiunque, da Pannella o da suor Teresa, e non cambierebbe molto. E questa la chiave, diversissima dal fascismo, anche dalla sua variazione caricaturale, del berlusconismo:
l’indifferenza al contenuto, limitata "solo" (non è poco) dalla protezione propria e dei propri interessi. Per il resto, è una macchina a gettone, o nemmeno. Alla fondazione del Pdl, occasione "storica", ha tenuto relazione di apertura e orazione conclusiva e non ha detto niente. Era superfluo. Ha detto bensì ai giornalisti, nell’intervallo, che era d’accordo con Fini, il quale invece al contenuto aveva dovuto badare. Ed è probabile che lo fosse davvero, col piccolo incidente che era d’accordo anche – così è sempre per lui- coi luogotenenti, quelli che Fini l’avrebbero fischiato secco. Il berlusconismo si arresta davanti a questo unico limite: che è
d’accordo con tutti, ma tutti sono in disaccordo fra loro. Ora Pannella- da un po’, perché il
tempo passa, e si va verso la fine - è esasperato dal mancato riconoscimento. Rischia perfino di dimenticare che la nostra patria si distingue per il ripudio dei propri padri - e madri, e che quel ripudio è il più lusinghiero dei laticlavi. Le stelle gialle sono l’ennesimo rincaro dei bravi radicali. Per giustificarle, bisogna che non il mondo d’oggi, ma l’Italia d’oggi somigli alla Germania del 1938. Ma la suggestione non ha senso, neanche in un gioco di caricature. Berlusconi vuole essere il più votato – all’unanimità, eventualmente - non nelle elezioni,
ma nel Grande Reality. Ci sono in Italia persone il cui impegno civile, e lo stesso svolgimento ordinario di un lavoro, costa già la vita, dove spadroneggiano le mafie. La caricatura cede
già al dramma vero per gli zingari, i romeni, gli annegati dalla sponda africana. Ma anche questo non è ancora, e forse non arriverà a essere, paragonabile all’antisemitismo. Zingari
e romeni e africani possono gonfiare un mercato di riserva di capri espiatori, ma non diventare i Grandi Colpevoli, i Grandi Cospiratori: per quello gli ebrei sono insostituibili devono
somigliarci fino a passare inosservati e insieme soverchiarci diabolicamente per cultura, intelligenza, denaro. Altra storia. Non è un caso che servano ancora al vecchio scopo sulla scala di un mondo che non ne ha mai visto uno.

 
Al capo opposto dell’intelligenza radicale, simboli tratti dallo stesso sacro magazzino vengono evocati alla leggera. Mi parve che il "Bella ciao" canticchiato da Santoro fosse fuori posto. Sempre per la differenza fra i momenti in cui qualcosa reclama di valere più della nostra stessa vita, e i momenti in cui si difende la propria personale dignità al costo tutt’al più di un avanzamento di carriera. C’è stata la censura contro Vauro: odiosa e stupida, poi presto tramutata in farsa (una settimana di sospensione e una lavata di capo, torni accompagnato...).

Io sono dalla parte di Vauro, perché sì, perché abbiamo appreso che guadagna 1.000 euro lordi (!), perché va in Afghanistan e si affeziona ai bambini afgani. Ma anche perché confido che Vauro non dimentichi nemmeno per un minuto la differenza fra quell’Afghanistan e questa
Italia, fra le donne e le bambine cancellate e violate e lapidate e le veline candidate al Parlamento europeo. Ora, nella vasta ribellione alla censura contro Vauro, ho letto mille volte la famosa frase di Voltaire. Quella che suona più o meno così: «Non sono d’accordo con quello che dici, ma mi batterò fino alla morte perché tu abbia il diritto di dirlo». Più o meno, non
perch̩ ci sia un problema di traduzione, ma perch̩ - mi dispiace di deludere la moltitudine di persone che hanno scoperto quelle parole РVoltaire non le ha mai scritte n̩ pronunciate.
Furono coniate forse da una studiosa inglese all’inizio del Novecento, come un compendio del pensiero volterriano, sicché nelle loro versioni francesi sono una traduzione dall’inglese...

 

Filologia a parte, quando leggo le mille ripetizioni di quella frase - per esempio sulla rete,
termometro sensibilissimo dei nostri umori -mi chiedo se mai almeno uno dei suoi ripetitori si sia fermato a interrogarsi sull’impegno che la lettera di quel motto pretende: «Mi batterò fino alla morte». E naturale che sia così, ci sono parole che devono restare esonerate da un ricatto letterale. Devo poter dire che questo gelato al limone è buono da morire, senza che mi rinfacciate di non esserne morto. Però appunto: vengono momenti in cui le parole presentano il conto. Per non sembrarvi capzioso, vi farò un meraviglioso esempio opposto, ancora caldo. Alla fine dell’epocale congresso del Pdl, Berlusconi ha cantato con le sue pupe e i suoi vice
l’inno nazionale, e quando è arrivato al verso: «Siamo pronti alla morte...», ha ammiccato al pubblico (cioè: al popolo) e ha fatto così con la manina per dire: «Pronti, be’ fino a un certo punto. Si fa per dire, no?». Il pubblico, cioè il popolo, deve aver trovato senz’altro simpatico il gesto.

 

Italiani, brava gente, spiritosa. Tutt’al più con un inno anacronistico, l’elmo di Scipio, stringiamoci a coorte. Gli italiani l’hanno già corretto a proposito, senza nemmeno volere:
Stringiamoci a corte. Ecco fatto. Quanto a quelli che si pongono il problema, deve pur esserci una via dignitosa fra la retorica pseudovolterriana e la manina cattivante di Berlusconi. Anche perché abbiamo imparato del regime fascista, quella invenzione di italiani tipici, è che vengono, "scherzando e ridendo", momenti tragici in cui il fiore di un’intera comunità deve decidere che cosa fare della propria vita. E soprattutto che nella ventina d’anni precedenti, benché si sia stati educati molto più rigidamente al libro Cuore e ai precetti
sull’onore, è successo che, neanche per salvare la pelle, ma appena per andare a occupare la cattedra lasciata improvvisamente vacante da un predecessore di razza giudaica, siamo
stati capacissimi di dimenticare che eravamo così pronti alla morte. Può sempre risuccedere.


NOTE


*Da “Repubblica” 25 aprile 2009